Il Paese
e il suo Territorio

Adagiato sulle pendici di un colle posto all’estremità sud dei monti del Chianti, San Gusmè è compreso nel territorio comunale di Castelnuovo Berardenga, che con la sua caratteristica forma a farfalla, si estende per 177 kmq nella provincia di Siena, città alla quale il paese lega indissolubilmente la sua storia.

Ci troviamo nella parte del Comune compresa nell’area di produzione del Chianti Classico, che si estende per circa 130 kmq sui 177 totali. Un territorio prestigioso per il suo vino e per quelle caratteristiche paesaggistiche, storiche, architettoniche e culturali che lo rendono una delle mete turistiche più apprezzate d’Italia e del mondo.

San Gusmè costituisce sicuramente il principale centro storico del Comune, sia per le dimensioni, sia, in particolare, per la conservazione degli edifici e delle mura trecentesche che ne definiscono il perimetro.

Per il visitatore, il primo approccio è semplicemente fantastico: raggiungendo il paese da sud, appena la vista si apre con l’inizio dell’ultima salita, si resta incantati da quel meraviglioso vigneto che, con le sue curve dolci e perfette, sembra abbracciare delicatamente il piccolo gioiello sulla sommità del colle.

Non da meno la spettacolare fotografia che accompagna l’arrivo da nord, dai monti del Chianti: il paese si staglia sullo sfondo dipinto dagli spettacolari vigneti e, più in lontananza, dalle armoniose forme delle Crete Senesi.

Il paese è quasi interamente circondato dalle proprietà della Tenuta di Arceno, una delle principali aziende vinicole del Chianti Classico, per secoli principale fulcro dell’economia della zona.

La storia
di San Gusmè

San Gusmè deve il suo nome a Sancti Cosme, primo titolare della chiesa dei Santi Cosma e Damiano risalente all’età carolingia ed ubicata nel villaggio di Campi, località a nord del paese.

Solo a seguito della decadenza di Campi, attorno al XIII secolo, San Gusmè divenne un importante centro di confine e nel 1370 gli abitanti decisero di fortificarlo, per divenire, fin dall’inizio del XV secolo, una delle roccaforti principali della Repubblica di Siena.

Occupato nel 1403 da fuoriusciti senesi e riconsegnato alla Repubblica Senese l’anno dopo, l’11 settembre 1478 San Gusmè venne occupato dall’esercito napoletano di Alfonso d’Aragona, per poi tornare nel 1528 in possesso di fuoriusciti senesi comandati da Giovanni Damiani. Nel 1554, durante l’ultima resistenza della Repubblica Senese, il castello fu assalito dalle truppe del Marignano e sottoposto all’autorità medicea, mantenendo tuttavia una marcata autonomia amministrativa.

Dominato dalla famiglia dei Del Taia per tutta l’età moderna, il 2 giugno 1777, in seguito alle Riforme Comunicative volute dal Granduca di Toscana Pietro Leopoldo, San Gusmè venne incorporato nel Comune di Castelnuovo Berardenga.

Ancora oggi nella località, che ha conservato i caratteri dell’insediamento medievale, si possono individuare alcune parti delle mura originali, come le due porte in pietra ad arco ribassato, poste una a Sud-Ovest e una a Nord-Est.

A San Gusmè visse Pier Pettinaio da Campi, ricordato da Dante nel XIII canto del Purgatorio; vi ebbe inoltre i natali nel 1556 Pietro di Giulio Sorri, pittore discepolo di Arcangelo Salimbeni e di Domenico da Passignano, a cui è attribuita l’Annunciazione posta nell’altare maggiore della Chiesa della Compagnia della S.s. Annunziata.

La Chiesa della Compagnia della Santissima Annunziata

La chiesa della S.S. Annunziata di San Gusmè rappresenta da sempre il fulcro dell’attività spirituale e sociale dell’omonima Compagnia Laicale.

Sull’altare maggiore troneggia la tela raffigurante l’Annunciazione, dipinto commissionato negli anni 70 del XVI secolo da Girolamo Vannini.

Da notare, in basso, un riquadro raffigurante proprio S. Girolamo che ammira la Vergine, quale eponimo del committente. Il dipinto fu attribuito in un primo momento a Pietro Sorri, ma recenti indagini attribuiscono gran parte della tela al suo maestro Arcangiolo Salimbeni, ed una parte, cioè l’immagine della Vergine, allo stesso Sorri.

Di notevole pregio sono anche i quattro dipinti alle pareti laterali: San Pietro, San Paolo, San Girolamo ed un santo vescovo non ancora identificato con certezza (forse S. Agostino).

La Compagnia Laicale di San Gusmè fu riconosciuta ufficialmente dal papa Paolo V nel 1611, con una bolla pontificia anch’essa ben conservata ed esposta al pubblico. Uno dei compiti principali della Compagnia era, ed è ancora, l’accompagnare i defunti verso la sepoltura: per questa funzione veniva utilizzato un cataletto, ossia una barella di legno, munita di testate. Nel senese si prevedeva l’uso, del tutto peculiare, di dipingere le testate dei cataletti funebri.

Il cataletto di San Gusmè, recentemente restaurato, è un vero capolavoro artistico ed ha accompagnato, per secoli, intere generazioni di sangusmeini, nel loro ultimo viaggio. La Chiesa è adornata da un campanile a sezione quadrata, caratterizzato da una parte in pietra ed una sommità piramidale più recente. E’ tornato da pochi anni a nuova vita grazie al contributo della comunità sangusmeina, con un importante intervento di restauro.

Il Luca Cava

La statuetta di Luca Cava nasce nel 1888, quando un contadino del posto, Giovanni Bonechi, decise di realizzare una figura in pietra che rappresentasse l’uomo intento nelle sue “quotidiane funzioni”, ponendola vicino al terreno di sua proprietà per invitare paesani e viandanti, ad espletare i propri bisogni nelle vicinanze, così da mantenere pulite le vie del borgo e concimare gratuitamente il terreno. La statua avrebbe ovviato al diffuso analfabetismo, che avrebbe impedito di comprendere eventuali indicazioni scritte.

La statua venne distrutta dai paesani di San Gusmè, stanchi delle prese in giro da parte degli abitanti dei paesi vicini, attorno ai primi degli anni ‘40; alcune testimonianze parlano di un’azione nottetempo per gettarla nel lago interno al bosco all’inglese della vicina tenuta di Arceno.

Negli anni Settanta fu Silvio Gigli, noto regista radiofonico e televisivo, autore, uomo di spettacolo, a convincere la comunità di San Gusmè a ricostruire la statuina di Luca e a dare vita alla festa che la celebra. La statua fu costruita da Marcello Neri, artista senese della terracotta, su disegno di Emilio Giannelli, vignettista di fama nazionale. Silvio Gigli ideò la targa, posta accanto al ritratto, che così recita: Re, imperatore, papa, filosofo, poeta, contadino e operaio: l’uomo nelle sua quotidiane funzioni. Non ridete, pensate a voi stessi.

La festa del Luca deve il suo successo all’opera di promozione di Silvio Gigli, che ha contribuito ai processi di rivitalizzazione culturale di alcuni borghi castelnovini come San Felice e San Gusmè. Silvio Gigli riuscì infatti a portare nei piccoli borghi importanti uomini dello spettacolo, italiani e stranieri, dando grande impulso anche al turismo.

Il Luca è diventato quindi un personaggio di graffiante umorismo, perfettamente adeguato allo spirito della festa che si svolge in suo onore.

Attualmente la festa, che come in origine si tiene a Settembre, si caratterizza per diverse attività: il mercato di prodotti locali, le esposizioni di arte con artisti locali e stranieri, gli spettacoli, la degustazione dei vini delle aziende del Chianti Classico, la messa in scena di eventi e pratiche del mondo contadino. Durante la festa del Luca si tiene un convegno a tema sostenibilità ambientale e si corre inoltre il Palio delle Botti, competizione che si svolge tra città provenienti da ogni parte d’Italia e vede impegnate coppie di atleti che spingono una botte di legno, del peso di circa 80 chili, per le vie del paese.

Villa Arceno

Fin dall’XI secolo si hanno tracce del villaggio aperto di Arceno, che nel XVII secolo divenne proprietà della famiglia senese Grisaldi del Taja; nel 1833 la famiglia Piccolomini Clementini acquistò la tenuta e commissionò ad Agostino Fantastici la ristrutturazione della villa e successivamente la costruzione del grandioso parco.

Dell’antico insediamento troviamo menzione già dal 1024 nel Cartulario della Berardenga: “in villa e districto de Arceno”. Lo stesso cartulario nel 1056 cita la Chiesa di San Giovanni e dal 1114 anche la chiesa di San Pietro. Nella Tavola Possessioni al 1318, Arceno è censito con 5 case, mentre nel 1366 e 1367 partecipa al Castro Novo e alla prima comunità di Castelnuovo. Nel 1692 è podere del comunello di S. Gusmè proprietà del Taia e nel 1777 editto leopoldino, risulta comunello a se stante ( il n° 36 dell’elenco)

Le notizie nei secoli che hanno preceduto la costruzione della villa, che comprende anche le scuderie, le cantine, i locali adibiti a fattoria e un vastissimo parco con al centro un lago artificiale. Attualmente non rimangono vestigia antiche dell’originario complesso, in quanto tutta la villa d’Arceno, come possiamo ammirarla oggi, sorse ex novo sul finire del XVIII secolo per volere del cavaliere Flaminio Del Taja.

Dopo la famiglia Del Taja, la proprietà passa ai Piccolomini Clementini, dai quali è stata dotata di un bellissimo giardino romantico progettato da Agostino Fantastici, riuscito esempio di giardino pittoresco all’inglese. Un tempo si potevano notare gli edifici del porticciolo, la casa delle barche posta al limite del lago, la grande voliera e il tempietto neoclassico con la statua di Pandora. Elementi ancora perfettamente riconoscibili e da qualche tempo oggetto di alcuni interventi, tipo la ripulitura di percorsi e delle zone adiacenti i vari monumenti o edifici; il viadotto è invece crollato, mentre il porticciolo è attualmente da restaurare.

La villa ha pianta rettangolare, sviluppata su tre piani e conclusa da una copertura a padiglione al centro della quale si eleva la torre colombaia. I fronti nord e sud sono caratterizzati da un corpo centrale a tre arcate sovrapposte su tutti e tre i livelli. Quasi tutti gli elementi decorativi sono realizzati in stucco e creano un sapiente contrasto cromatico con le superfici a intonaco bianco.

Al piano nobile dell’edificio si trova un ampio salone sul quale aprono le porte delle varie stanze. L’ultimo piano, riservato alla servitù, è raggiungibile mediante una scala a chiocciola in pietra, che mette in comunicazione tutti i piani e termina con un lucernaio cilindrico. Sotto la villa si snoda un piano sotterraneo (il più antico) collegato ai fabbricati annessi dove sono ubicate le cantine.

L’intero complesso è stato oggetto di un intervento di restauro che ha permesso dopo molti anni di abbandono il recupero della sua funzione come centro amministrativo della vasta tenuta vinicola. Rimane tuttavia in stato di abbandono il giardino.

Piano Tondo e Necropoli del Poggione

L’area è contraddistinta da un insediamento etrusco risalente al VII/VI secolo a.C., sorto in una zona, quella del massiccio meridionale del Chianti, caratterizzata da numerose comunità sorte in corrispondenza di vie di comunicazione di primario interesse e di importanti corsi d’acqua, come Ombrone, Ambra e Arbia.
La facilità di commercio, la possibilità di controllare un vasto territorio, le abbondanti risorse naturali che permettevano l’approvvigionamento di prodotti dell’agricoltura e del bosco, i depositi di travertino dalla vicina area di Rapolano Terme e la presenza di acque termali favorirono lo sviluppo del territorio, permettendo l’ascesa di gruppi gentilizi che dalla seconda metà del VIl secolo a.C. si stabilirono su una serie di alture accomunate da caratteristiche simili, in posizione dominante su pianori terrazzati
artificialmente, spesso in diretta comunicazione visiva tra loro.
La più elevata tra queste residenze sorgeva sull’altura di Piano Tondo, a 642 metri s.l.m., in prossimità delle sorgenti dell’Ombrone, non molto distante dagli insediamenti di Murlo e Siena e in diretto contatto visivo con Poggio Castiglioni, insediamento in posizione strategica al di là della valle del’Ambra. Poco distante, in direzione nord-ovest, si trova la necropoli del Poggione, facilmente raggiungibile a piedi in direzione nord-est, che presenta evidenze di tombe a camera in travertino, all’interno delle quali i ricchi signori di Piano Tondo seppellirono i loro defunti. Un’altra ricca necropoli, in uso per un lungo arco di tempo (dall’inizio del VIl al Ill secolo a.C.), è stata scavata in località Bosco Le Pici, probabilmente collegata al vicino insediamento di Cetamura della Berardenga, altro insedimanto raggiungibile a piedi da Piano tondo in direzione nord ovest.

A differenza delle case comuni, il cui tetto era fatto con semplici tegole di terracotta piane (embrici) e curve (coppi), le residenze principesche etrusche si distinguevano per la decorazione, che poteva essere solo dipinta o anche a rilievo. Le falde erano abbellite nella Parte terminale da lastre con motivi
floreali, scene figurate o semplici baccellature; in corrispondenza della testate delle travi venivano collocate le antefisse, spesso decorate da teste femminili o aschili, mentre sul colmo potevano essere installate figure a ritaglio o tutto tondo (acroteri). Questi elementi servivano non solo ad esibire il potere e la ricchezza del proprietario, ma anche a proteggere dalle intemperie le parti del tetto costruite con materiale deperibile. Le residenze univano spesso funzioni abitative e produttive, testimoniate in genere da piccole fornaci per la cottura della ceramica o da scarti di lavorazione, e talvolta religiose, con piccoli
luoghi di culto documentati da ex voto in bronzo. Le indagini archeologiche effettuate dalla Soprintendenza sull’altura di Piano Tondo 1977 e il 1981 hanno restituito tracce di un edificio distrutto
probabilmente da un incendio, del quale restavano grandi quantità di tegole e
decorazioni in terracotta, rinvenute all’interno di fosse scavate in età moderna per l’impianto di un vigneto.
Sebbene non siano state rinvenute strutture dell’edificio, distrutte dai lavori agricoli, le antefisse a
testa femminile e un elemento a forma di sfinge testimoniano la presenza di un ricco edificio residenziale sorto nella seconda metà del VII secolo a.C. Insieme agli elementi di copertura sono stati rinvenuti oggetti per la vita quotidiana, come vasi in ceramica grezza per contenere e cuocere il cibo, strumenti per la filatura la tessitura e raffinato vasellame da mensa in bucchero, la tipica ceramica etrusca di colore nero in uso tra Vll e VI secolo a.C.

Le evidenze della presenza dell’area per la produzione di terracotta sono emerse durante gli scavi eseguiti nei primi mesi del 2022. È localizzata al centro della vigna sottostante il poggio di Piano Tondo, in direzione sud, in corrispondenza del grosso pietrone al centro dei filari. La presenza di uno spazio artigianale adiacente alle residenze principeschę è un modello ricorrente nel territorio per l’epoca orientalizzante-arcaica, come testimoniato dai casi di Poggio Civitate (Murlo), Poggio Castiglioni (Ambra, Bucine) e Fossa del Lupo (Cortona). Lo scavo ha messo in luce due differenti strutture produttive. La prima è una fornace per laterizi le cui evidenze, piuttosto labili, sono riconducibili ad alcuni allineamenti di pietre, ampie macchie di terreno fortemente arrossato dal fuoco o
di colore nerastro per la presenza di resti di carbone, oltre a una grande densità
di materiale laterizio, in prevalenza tegole piane e curve, sparso su tutta l’area. Possiamo ipotizzare una fornace di forma quadrangolare, con lati di circa 3,80 x 4,50 metri e muratura perimetrale dello spessore di circa 60 cm. All’interno della struttura, quattro muri di minor spessore erano funzionali a sorreggere il piano divisorio fra la camera di combustione e quella di cottura. I reperti recuperati
sono contemporanei alla residenza aristocratica attestata sulla cima del colle. Circa 10-15 metri in direzione sud-est è stata rinvenuta una seconda fornace, per la cottura della ceramica, interamente conservata al livello del basamento. La struttura presentava forma circolare/ellittica (diametro di circa 1,5 metri) con l’imboccatura (prefurnio) collocata verso ovest, ben delimitata da pietre e pezzi di
tegola disposti verticalmente. II rinvenimento ha evidenziato, alla quota più alta, piccoli spargimenti di colore rossastro, pietre, laterizi e due frammenti di tubuli troncoconici in terracotta, chiari indizi del collasso delle pareti della struttura. Al di sotto, è emerso uno strato di carbone con lenti di cenere e piccoli grumi di terreno concotto, riconducibile all’ultima cottura prima che la fornacetta venisse distrutta.

Necropoli del Poggione

In seguito agli scavi realizzati tra il 1980 e il 1984 sono emerse tre tombe a camera di età orientalizzante e arcaica, due delle quali in buono stato di conservazione. Le strutture erano realizzate con lastre di travertino di Rapolano che costituivano sia le pareti che la pavimentazione. Il sito è databile attorno all’ultimo quarto del VII secolo a.C., primi decenni del VI secolo a.C.
Nella tomba A è stata riconosciuta la deposizione di un principe, data la ricchezza del corredo: un carro da guerra a due ruote a struttura leggera, frammenti di due scudi in lamina di bronzo decorata a sbalzo, due punte di lancia, coltelli e spada in ferro, pettine e pisside in avorio, cofanetto in lamina di bronzo decorata a sbalzo, una teglia, anse di vari vasi in bronzo.
Nella tomba B, distrutta in parte, sono stati rinvenuti materiali molto frammentari. Una delle due grandi olle rinvenute nella tomba è stata interamente ricostruita: presenta sull’orlo una treccia incisa con occhi di dado stampigliati negli occhielli; sulla spalla due file di occhi di dado e un cordone plastico, mentre la decorazione dipinta sul corpo è realizzata con vernice rossastra e con i dettagli graffiti.
Il sito è raggiungibile solo a piedi, ma è difficile da identificare: dalla SP 73 si deve seguire un viottolo che si addentra nel bosco; alla sommità, un recinto delimita l’area delle tombe, che si trova all’interno di una proprietà privata ma è liberamente visitabile.